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Rev. Dr. Martin Robra e Antonio Spadaro, SJ. Foto: Céline Fossati

Rev. Dr. Martin Robra e Antonio Spadaro, SJ. Foto: Céline Fossati

Intervista al pastore Martin Robra

Antonio Spadaro S.I.

Ho incontrato il pastore Martin Robra il 27 maggio del 2017 presso Villars-sur-Glâne, a pochi chilometri da Ginevra. Nel 1994 ha iniziato a lavorare presso il Consiglio ecumenico delle Chiese (CEC) e nel 2006 è diventato co-segretario del gruppo misto di lavoro tra il Consiglio e la Chiesa cattolica istituito nel 1965. Con il pastore Robra avevo parlato dell’incontro di Lund, in occasione della commemorazione dei 500 anni della Riforma. Parlavamo di come tutti i discorsi fossero stati centrati sul futuro e non sul passato. In quella occasione mi aveva espresso desiderio e attesa per una visita di papa Francesco alla sede del CEC di Ginevra.

Ricordando la condivisione di quelle attese e di quelle speranze, alla vigilia del viaggio del Pontefice a Ginevra sono tornato da lui per dialogare su questa visita che avviene nel contesto delle celebrazioni dei 70 anni dalla fondazione del Consiglio – noto in inglese come World Council of Churches (WCC) –, che nasceva, infatti, ad Amsterdam il 22 agosto 1948. Il Papa incontrerà l’organo di governo del CEC, il Comitato centrale, composto da 150 rappresentanti eletti.

Martin Robra – sposato con Barbara Siebel e padre di cinque figli – è pastore della Chiesa evangelica di Westfalia.

Che cosa è il Consiglio ecumenico delle Chiese? Dicci qualcosa sulla sua storia, sugli inizi, sul significato

Nel 1921 il Patriarca ecumenico di Costantinopoli scrisse una lettera ad altre Chiese cristiane, proponendo la formazione di una koinonia di Chiese, un’alleanza o una comunione di Chiese nel reciproco sostegno, per facilitarne la testimonianza comune al mondo. Sarebbe diventato uno strumento per la promozione dell’unità dei cristiani. Tuttavia il CEC non va visto come un’organizzazione centralizzata con sede a Ginevra o come un tentativo di creare una «Chiesa mondiale». Il CEC è la comunità fraterna di 348 Chiese,  provenienti per la maggior parte da tradizioni ortodosse, anglicane e protestanti, e comprende anche un certo numero di Chiese pentecostali e Chiese africane indipendenti. Il CEC, per le Chiese che ne fanno parte, significa camminare insieme con fiducia reciproca. Nel preambolo della sua Costituzione si afferma che esso è una «comunità fraterna di Chiese che confessano il Signore Gesù Cristo come Dio e Salvatore, secondo le Scritture, e si sforzano di rispondere insieme alla loro vocazione comune per la gloria di un solo Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo». Ginevra ospita soltanto il segretariato, che si pone al servizio della comunità delle Chiese membro e dei partner ecumenici.

Il 2 marzo scorso, in occasione di una conferenza stampa congiunta in Vaticano, il Rev. Dott. Olav Fykse Tveit, segretario generale del Consiglio ecumenico delle Chiese, ha dichiarato: «La notizia della visita del Papa al CEC e a Ginevra è un segno di come le Chiese cristiane possano affermare la nostra chiamata e missione comune di servire insieme Dio». Ho letto che c’è un profondo senso di «missione» proprio alla base del Consiglio sin dalla sua fondazione. È così?

Sì, un importante impulso alla formazione del CEC è venuto dalla necessità di cooperare nella missione. Spesso ci si riferisce alla Conferenza missionaria mondiale del 1910 come al punto di partenza del movimento ecumenico moderno, sebbene la World Student Christian Federation e altre organizzazioni giovanili avessero già elaborato questa idea ecumenica. La terribile crisi della Prima guerra mondiale rafforzò la volontà dei leader delle Chiese di crea­re movimenti volti non soltanto alla missione, ma anche all’unità (Faith and Order, Losanna 1927) e alla giustizia e alla pace nel mondo (Life and Work, Stoccolma 1925). Questi due momenti hanno avviato, nel 1936, il processo di formazione del CEC, che tuttavia venne interrotto dalla Seconda guerra mondiale. Il CEC è stato infine costituito nel 1948 con la prima assemblea di Chiese ad Amsterdam, ragion per cui quest’anno celebriamo il settantesimo anniversario. È diventato un vero e proprio corpo globale nell’assemblea di Nuova Delhi nel 1961, con l’ingresso dell’International Missionary Council (IMC) e di Chiese ortodosse dell’Europa centrale e orientale.

La sua Costituzione ne esprime chiaramente gli scopi: «L’obiettivo del CEC è camminare verso l’unità visibile in una sola fede e in una sola comunità eucaristica, espressa nel culto e nella vita comune in Cristo, attraverso la testimonianza e il servizio del mondo, e avanzare verso quell’unità affinché il mondo creda».

La visita di Francesco sarà un’occasione per mettere in evidenza gli importanti traguardi raggiunti e per affrontare le sfide future dell’ecumenismo. Come vedi l’attuale situazione dell’ecumenismo?

Fino a pochi anni fa eravamo abituati a parlare di un «inverno ecumenico». Tuttavia il nostro Segretario generale, il reverendo Olav Fykse Tveit, che viene dalla Norvegia, amava dire che nell’inverno non c’è nulla di sbagliato: c’è soltanto bisogno di guanti e vestiti che tengano caldo. Però mi sembra che con papa Francesco e le sue iniziative sia giunta una nuova primavera. La sua partecipazione, a Lund, alla preghiera per la celebrazione del V centenario della Riforma mi ha molto incoraggiato. In quel momento il motto delle celebrazioni, «Dal conflitto alla comunione», si è fatto vita. Ma non è accaduto soltanto lì: Chiese di tutto il mondo hanno celebrato insieme la guarigione dalle memorie ferite della Riforma. Non dimentichiamo quante guerre ne sono state alimentate.

La visita del Papa a Lund mi pare sia stato un momento importante. Mi ha molto colpito il fatto che i discorsi siano stati centrati sulle sfide del presente e del futuro, sul cammino da fare…

Lund è diventato un momento di unità lungo il cammino. È una pietra miliare sulla strada che facciamo insieme. Lo vediamo ancora più chiaramente quando ricordiamo che, nel loro cammino verso Lund, luterani e cattolici si sono incontrati prima nel 1999 ad Augusta per la firma della Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione. Trovo affascinante che queste due pietre miliari diventino punti di riferimento che ci aiutano a vedere il lungo cammino da cui proveniamo e come andare avanti insieme nel futuro. La Dichiarazione congiunta ci ricorda l’iniziativa di Dio per la salvezza del mondo: iniziativa che viene prima di tutto. Dio ci sta raggiungendo per grazia. La Dichiarazione di Lund dimostra che l’evento di Augusta del 1999 e il comune viaggio che ci ha condotto lì hanno davvero cambiato molti di noi. Tornando da lì, abbiamo riconosciuto l’importanza dei ricordi del passato, segnati da ferite e avvelenati dall’odio.

Quasi un momento di liberazione, di riscoperta…

Ci siamo sentiti liberi di non ripetere gli stessi stereotipi che hanno approfondito la separazione delle Chiese e delle comunità e portato alla violenza e perfino alla guerra nei cinque secoli successivi alla Riforma. Invece, abbiamo riscoperto un grande patrimonio comune. In questo modo siamo diventati responsabili sia del nostro passato sia del nostro futuro insieme, e non più soli e separati gli uni dagli altri. Invece di allontanarci, possiamo camminare insieme e condividere con gli altri le nostre storie, le nostre speranze e le nostre aspettative per il futuro delle nostre Chiese e del mondo.

Naturalmente restano tuttora delle sfide importanti…

Certamente, e non da ultimo, le tensioni intorno a questioni di etica della persona e della sessualità umana. Ma insieme abbiamo la possibilità di dimostrare al mondo che quanto ci unisce è assai di più rispetto a quanto ci divide. Davanti a noi c’è la strada non facile di portare tutti i cristiani a un dialogo e ad una cooperazione più stretti, e di impegnarci insieme nel dialogo interreligioso e nella collaborazione per il bene della pace e il fiorire della vita. Il CEC ha bisogno di costruire ponti all’esterno dei suoi membri, che rappresentano circa 560 milioni di cristiani in 110 Paesi di tutto il mondo.

La Chiesa cattolica non fa parte del Consiglio ecumenico delle Chiese, ma partecipa come «osservatrice» e collabora a vari livelli sin dal 1965 – anno in cui si concluse il Concilio Vaticano II –, in particolare nella Commissione «Fede e costituzione» e nella Commissione «Missione ed evangelizzazione». Che rapporti avete oggi con la Chiesa cattolica, considerando la storia di queste relazioni e quelle attuali con papa Francesco?

La nostra cooperazione con i dicasteri vaticani è migliorata molto. In particolare con il Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, quello per il dialogo inter-religioso, come pure con il nuovo Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale. Non che prima i rapporti fossero cattivi, ma ora c’è molto più spazio e disponibilità per una significativa cooperazione al di là del dialogo teologico tra le Chiese che ricade sotto la responsabilità del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani.

C’è motivo di festeggiare anche altre conquiste della cooperazione, come la convergenza sui testi di Faith and Order e la dichiarazione della nuova missione del CEC Together toward life, o la cooperazione molto migliorata a favore dei migranti e dei rifugiati.

A integrare la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, in molti luoghi nel mondo è stata osservata e celebrata ecumenicamente la Giornata mondiale di preghiera per la cura del creato; in alcuni posti ciò è avvenuto anche con la partecipazione di persone di differenti religioni. Ci auguriamo che la visita di papa Francesco a Ginevra mandi un segnale forte perché tutti i cristiani condividano l’impegno ad approfondire l’unità delle Chiese in cammino e a partecipare insieme alla divina missione della vita, della giustizia e della pace nel mondo.

Quale eco ha avuto l’enciclica «Laudato si’» all’interno del CEC? E le esortazioni apostoliche di Francesco «Evangelii gaudium», «Amoris laetitia» e «Gaudete et exsultate»? Come sono state ricevute?

Le esortazioni apostoliche Evangelii gaudium e Amoris laetitia, e l’enciclica Laudato si’ sono state studiate dal gruppo operativo del CEC, perché hanno uno stretto riferimento al nostro lavoro. Abbiamo organizzato seminari per i nostri collaboratori, al fine di studiare questi documenti. Non lo abbiamo ancora fatto con Gaudete et exsultate. Sono tutti testi saldamente radicati nella dottrina della Chiesa cattolica, ma in ottima consonanza con il lavoro unitario delle Chiese del CEC. Sono diventati punti di riferimento ricorrenti.

Parliamo della visita papale al CEC. Francesco non è il primo papa accolto a Ginevra. Prima di lui vi erano state le visite di Paolo VI (giugno 1969) e di Giovanni Paolo II (giugno 1984). Qual è il significato di questa prossima visita?

È sorprendente che papa Francesco abbia dato tanto rilievo al CEC durante la sua visita a Ginevra. È un fatto molto diverso rispetto alle due precedenti visite a Ginevra dei papi Paolo VI e Giovanni Paolo II. Quei viaggi erano stati dedicati dai Papi anzitutto alla Svizzera e agli uffici ginevrini delle Nazioni Unite in qualità di capi di Stato. Papa Francesco viene prima di tutto come capo della Chiesa cattolica, vescovo di Roma e successore di Pietro. Si muove da Roma a Ginevra. Speriamo che insieme potremo continuare il «Pellegrinaggio di giustizia e pace» verso coloro che sono ai margini della società, coloro che hanno sete di giustizia e di pace in questo mondo colpito dalla violenza con le sue ingiuste relazioni politiche ed economiche.

È un bene che papa Francesco arrivi poco dopo la chiusura del nostro Comitato centrale, il più alto organo decisionale del CEC. Il Centro ecumenico di Ginevra sarà pieno di rappresentanti delle Chiese membro e di partner ecumenici in rappresentanza di tutte le dimensioni del movimento ecumenico. La sua visita dimostra l’unicità del movimento ecumenico, al quale la Chiesa cattolica ha aderito con la promulgazione del Decreto sull’ecumenismo Unitatis redintegratio. Il mondo vede nel Papa una voce determinante del cristianesimo mondiale, insieme al patriarca ecumenico Bartolomeo e a pochi altri capi ecclesiastici. Sarebbe davvero un grande passo avanti se divenisse chiaro che il Papa non parla soltanto nell’interesse della Chiesa cattolica di Roma, ma piuttosto anticipa quella Chiesa una, santa, apostolica e cattolica con coloro che finora sono separati.

Papa Francesco parla spesso di Chiesa in uscita verso chi si trova nelle periferie…

E afferma pure che l’unità si approfondisce camminando insieme… Papa Francesco parla spesso dell’unità delle Chiese come unità sulla via. Dopo l’assemblea di Busan del 2013, il Consiglio ecumenico delle Chiese articola tutto il suo lavoro nel quadro del pellegrinaggio verso la giustizia e la pace: stiamo camminando insieme come discepoli di Cristo. Potremmo camminare separatamente per un po’ di tempo, ma ci sono momenti in cui ci riuniamo; quando ricordiamo insieme cosa è successo per via, rinnoviamo il nostro impegno per il pellegrinaggio comune e continuiamo il viaggio con un senso condiviso di direzione e di scopo.

Sì, e camminando è possibile discernere insieme i paesaggi attraverso i quali il cammino è chiamato a procedere...

Ci sosteniamo reciprocamente nella testimonianza comune. Insieme stiamo facendo moltissimo, ma possiamo fare di più e rendere più esplicito che stiamo camminando fianco a fianco.

Francesco è andato a Lesbo con il patriarca Bartolomeo, e a Cuba ha incontrato per la prima volta il Patriarca di Mosca. È andato a Lund per commemorare il cinquecentesimo anniversario della Riforma. Ha visitato la comunità luterana e quella anglicana a Roma, e anche la comunità valdese a Torino… Il suo messaggio non insiste soltanto sulla prosecuzione del dialogo teologico, ma sul fare alcune cose insieme «come se» fossimo già una cosa sola, incentrandoci sull’evangelizzazione e sulla testimonianza comune che il mondo ci richiede riguardo a questioni urgenti come le migrazioni. Qual è la tua opinione al riguardo? Si può pensare a un nuovo passo avanti basato su questo «come se fossimo già uno»?

Sì, abbiamo visto papa Francesco agire da «costruttore di ponti». Ti sono molto riconoscente per avere sollevato questa domanda sul modo di farlo. Avrai notato come ogni volta che faccio riferimento al «Pellegrinaggio di giustizia e pace», e all’unità da approfondire strada facendo, nutro una reale speranza nel rapporto tra le Chiese «come se» fossero una cosa sola. Nei primi anni del CEC, il nostro Comitato centrale ha affermato il cosiddetto «principio di Lund», che pone l’interrogativo: le nostre Chiese non «dovrebbero agire insieme in tutte le questioni tranne quelle in cui profonde differenze di convinzione le costringono ad agire separatamente?». Le Chiese cristiane possono fare molto di più insieme nell’evangelizzazione, nell’azione sul terreno pubblico, nel servizio diaconale e pastorale e nella loro comune testimonianza di quel Dio che è tre in uno, che ci ha creati nella nostra diversità, ci ha riconciliati in Cristo e ci rende una cosa sola nello Spirito Santo.

Nel marzo scorso avete tenuto, ad Arusha, in Tanzania, la Conferenza missionaria mondiale 2018. La Conferenza ha concepito la missione come un’attività multivalente che comprende la testimonianza, con la parola e le opere, della persona di Gesù Cristo e del suo Vangelo, l’impegno a lavorare per la giustizia e la riconciliazione tra tutti i popoli e all’interno dell’intero creato. Qual è il messaggio profetico espresso da quell’incontro?

La Conferenza ha coinvolto anche molti missiologi cattolici, evangelici e pentecostali. C’erano in tutto circa mille partecipanti. Hanno redatto insieme la «Chiamata di Arusha al discepolato». Riflettendo sul «discepolato trasformativo» durante la Conferenza, questa dichiarazione comprende una critica profetica dell’attuale sistema finanziario e delle strutture economiche che hanno portato a livelli scandalosi di disuguaglianza, escludendo milioni di persone. È molto in sintonia con l’Evangelii gaudium e la Laudato si’. La dichiarazione afferma che il discepolato è un dono, ma anche una chiamata a essere collaboratori attivi con Dio per la trasformazione della realtà. Questo significa prendersi cura sia delle persone sia della sofferenza della creazione, cercando la giustizia e la pace. In questo modo rispondiamo alla chiamata di Gesù a seguirlo alle periferie del nostro mondo.

Il documento riflette il tema principale della Conferenza, sul discepolato trasformativo e sulla potenza dello Spirito Santo consolatore, difensore e sostenitore. Più avanti esso afferma che siamo chiamati a essere leader che servono e mostrano la via di Cristo in un contesto che privilegia il potere, la ricchezza e la cultura del denaro. Tra altre chiamate alla trasformazione, c’è anche la seguente, rivolta alla Chiesa: «Siamo chiamati come discepoli ad appartenere insieme a una comunità giusta e inclusiva, nella nostra ricerca di unità e nel nostro cammino ecumenico, in un mondo basato sull’emarginazione e sull’esclusione». Il testo si conclude con una preghiera, in cui si sottolinea che il nostro impegno di discepoli uniti nello Spirito Santo si realizza «camminando, pregando e lavorando insieme». Ed è proprio questo è il motto della visita di papa Francesco a Ginevra!

Qual è oggi la principale sfida dell’ecumenismo?

L’ecumenismo ha una forte dimensione escatologica, anticipando il regno di Dio, che ha creato ogni vita e una sola famiglia umana, ci ha riconciliati in Cristo e ci sostiene e ci guida nel nostro cammino tramite la potenza dello Spirito Santo. Ciò apre questo ampio orizzonte di giustizia e di pace per tutti. La realtà è tuttavia ancora molto frammentata e segnata dalla competizione per il potere e la ricchezza. Le contrapposte identità sono state finora sostenute da culture, e in parte anche dalla religione. C’è ancora una lunga strada da percorrere prima che si possa vedere un terreno comune globale in cui interagiscano pacificamente le culture e le religioni: una realtà, cioè, profondamente diversa da quello strato molto sottile e superficiale che ci viene proposto dall’attuale cultura dei consumi e dai media globali che la sostengono. Abbiamo ancora un lungo cammino da percorrere prima che la dimensione ecumenica della nostra vita condivisa nella nostra casa comune si radichi profondamente nella mente e nel cuore delle persone. Considero le difficoltà che stiamo affrontando come le «doglie del parto» di questa nuova dimensione delle culture e delle religioni.

Ho l’impressione che negli ultimi anni molti dei programmi del CEC e della Santa Sede si siano avvicinati e che la collaborazione sia cresciuta. Qual è la conquista principale dell’ecumenismo in questo tempo?

I principali successi del movimento ecumenico, secondo me, sono i molti casi in cui esso ha contribuito alla pace e alla riconciliazione in tanti modi concreti. Anche la mia storia personale ne è un riflesso. Mia madre è sopravvissuta al freddo inverno successivo alla Seconda guerra mondiale grazie a un forno ricevuto in dono dai Servizi ecumenici per i rifugiati sostenuti dalla Chiesa di Svezia. Ho visto il movimento ecumenico alimentare il dialogo tra Est e Ovest, contribuire alla pace e infine la caduta del Muro di Berlino e la pacifica riunificazione della Germania. Sono stato in Colombia nel febbraio scorso e ho visto come le Chiese insieme partecipino in modo significativo al processo di pace, che è ancora fragile. Penso che le Chiese abbiano anche un ruolo importante nell’affrontare la sfida del cambiamento climatico come un compito comune per tutti noi, ma soprattutto per coloro che hanno maggiormente contribuito alle emissioni di gas serra.

E poi la Chiesa in cammino è un popolo definito da una speranza. Sperare significa spesso essere capaci di vedere al di là di quello che si vede e attendere qualche cosa di più e di altro…

Certo, e potrei arricchire ancora l’elenco che ho appena fatto aggiungendo molti altri casi in cui la cooperazione ecumenica è stata una concreta fonte di speranza per le persone che soffrono l’ingiustizia e la violenza.

* * *

Papa Francesco partirà il 21 giugno alle 8,30 dall’aeroporto di Roma Fiumicino per arrivare a Ginevra alle 10,10. Dopo una cerimonia di benvenuto e un incontro privato con il presidente della Confederazione svizzera in una sala dell’aeroporto, alle 11,15 avrà luogo, nel Centro del CEC, una preghiera ecumenica, durante la quale il Papa pronuncerà un’omelia. Il pranzo sarà con la leadership CEC nell’Ecumenical Institute di Bossey, e alle 15,45 ci sarà un incontro ecumenico, in cui il Pontefice terrà un secondo discorso. La giornata si chiuderà con la Messa celebrata dal Papa nel Palexpo. Francesco ripartirà alle 20, dopo il congedo dai vescovi e dai collaboratori delle rappresentanze pontificie in Svizzera.

Interrogato sul significato della visita, il Segretario generale del Consiglio ecumenico delle Chiese ha dichiarato che essa «è un riconoscimento per coloro che hanno pregato e lavorato insieme per molti anni per l’unità della Chiesa. È un segno significativo del percorso che abbiamo compiuto in questi anni, attraverso il lavoro del CEC e in collaborazione con la Chiesa cattolica romana, e ora sotto la guida di Papa Francesco».

Da parte sua, il 31 gennaio 2018 il Pontefice aveva scritto una lettera indirizzata al cardinale Reinhard Marx, presidente della Conferenza dei vescovi cattolici tedeschi, e a Heinrich Bedford-Strohm, presidente del Consiglio della Chiesa evangelica in Germania (EKD), per ribadire «la grande gioia della scoperta che dopo 500 anni di storia comune, in parte assai dolorosa, siamo entrati in un nuovo periodo di comunione. Questo anno di celebrazioni ci ha mostrato che il futuro non può essere scritto senza dialogo ecumenico». La missiva sottolinea l’importanza dei documenti congiunti firmati nel corso del 2017, con il Pontefice che si dice «convinto che il conflitto esploso nel XVI secolo è destinato a concludersi e che le ragioni della nostra diffidenza reciproca scompariranno in gran parte».

È alla luce di queste affermazioni che si deve dunque da intendere la visita di Francesco al Consiglio ecumenico delle Chiese.

 

Papa Francesco visita il CEC

La Civiltà Cattolica



.      Cfr G. Pani, «Il viaggio del Papa in Svezia», in Civ. Catt. IV 2016 381-392.

.      Il Comitato centrale si riunisce ogni due anni, con la responsabilità di dare attuazione alle decisioni dell’Assemblea generale, discutere e rivedere le grandi linee programmatiche del CEC e approvare il bilancio dell’organizzazione. L’ultima riunione ha avuto luogo dal 22 al 28 giugno 2016, nella città di Trondheim, in Norvegia. L’attuale Comitato è stato eletto in occasione della X Assemblea generale, tenutasi nel 2013 a Busan (Repubblica di Corea). L’Assemblea ha luogo ogni sette anni ed elegge un Comitato Centrale, che è organo di governo tra un’assemblea e l’altra e si riunisce ogni 18 mesi circa. Il segretario generale del CEC viene eletto dal Comitato Centrale. Attualmente questa carica è ricoperta dal pastore luterano norvegese Olav Fykse Tveit. Cfr il sito ufficiale: www.oikoumene.org

.      Attualmente si occupa pure della formazione permanente, della diakonia anche ecumenica e di promuovere il programma principale del CEC, a seguito dell’assemblea di Busan del 2013, cioè il «Pellegrinaggio di giustizia e pace». Ha ricoperto vari incarichi, occupandosi dell’area delle relazioni con le varie Chiese del CEC, con le Christian World Communions, con il Global Christian Forum e altri partner, e più tardi è diventato anche membro della facoltà del Bossey Ecumenical Institute, interessandosi in maniera specifica di etica sociale. È il co-fondatore di globethics.net (Ginevra) e dell’Institute for Inter-religious and Inter-cultural Research (Liechtenstein). Si può consultare una sua presentazione biografica in https://institute.oikoumene.org/en/study-at-bossey/teaching-staff/Robra_bio_publications.pdf

.      La Dichiarazione ha mostrato che le Chiese luterane e la Chiesa cattolica sono ormai in grado di enunciare una comprensione comune della nostra giustificazione operata dalla grazia di Dio per mezzo della fede in Cristo.

.      Francesco, «Lettera del Santo Padre al Cardinale Marx in occasione del 500° anniversario della Riforma», in http://w2.vatican.va (tedesco), 31 gennaio 2018.